19 Aprile 2024
Gruppo Missionario

Testimonianza missionaria

In Kenya il 23.5.2015 la Beatificazione di suor Irene Stefani,

 la “madre misericordiosa”

 

Testimone dei miracoli P. Giuseppe Frizzi di Suisio missionario della Consolata di Torino

Suor Irene Stefani, delle Missionarie della Consolata, chiamata “madre misericordiosa” è stata beatificata il 23 maggio 2015 a Nyeri, in Kenya, dal cardinale Polycarpo Pengo, arcivescovo di Dar-es-Salaam.

Morì a 39 anni a Gekondi (Nyeri, Kenya) il 31 ottobre 1930  curando un uomo ammalato di peste.

Suor Irene era nata a Anfo (Brescia) il 22 agosto 1891, battezzata col nome di Mercede, quinta di dodici figli. A 20 anni entra tra le Missionarie della Consolata, a 23 parte per il Kenya. Per i primi anni si dedica all’assistenza negli ospedali militari, strutture fatiscenti senza nulla,  dove pulisce e fascia le ferite dei portatori africani, arruolati per trasportare materiale bellico della Prima Guerra Mondiale.

“Lei non perdeva la speranza di aiutare la gente gravemente colpita e faceva di tutto per dare speranza, per curare, per dare da mangiare”.

Nel 1920, suor Irene raggiunge la missione di Ghekondi, dove si dedica all’insegnamento scolastico. Gira per le capanne, col sorriso e un rosario in mano, alla ricerca di ragazzini da invitare a scuola e così conosce e aiuta come può anche le loro mamme. Insegna alle giovani consorelle, giunte da lei per il tirocinio missionario, e le circonda di affetto e attenzioni. Poi, nel settembre 1930, mentre si trova a Nyeri matura il desiderio di offrire la propria vita per le missioni.
Domenica 26 ottobre 1930 è la festa di Cristo Re. Suor Irene alla Messa guida le preghiere, ma i brividi le gelano le ossa. Si mette a letto. Muore cinque giorni dopo, a 39 anni, felice di andare “in Paradiso”, come dice a chi le è accanto in lacrime. Colei che chiamano “Nyaatha”, cioè “madre misericordiosa”, realizza il sogno annotato un giorno su una pagina – “Poter dire: Io sono Irene di Gesù e meritare la risposta: Io sono Gesù di Irene”.

 

I miracoli che la chiesa ha riconosciuto per la beatificazione di Suor Irene

Il fatto avvenne durante la guerra civile del Mozambico,  Paese diviso tra due contrapposte fazioni, RENAMO (conservatore anticomunista) e FRELIMO (marxista).

Gennaio 1989

Sono passate da poco le 6 del mattino e nel villaggio mozambicano di Nipepe (Diocesi di Lichinga, Niassa), è l’ora della Messa. Un’alba tranquilla come tante altre, quella di quel 10 gennaio 1989, fino a quando il rumore della paura piomba tra le case. Spari, raffiche di armi, urla, veicoli che arrivano e annunciano una strage come tante altre in quel periodo. I miliziani della “Renamo” che da 20 anni combattono contro il partito filomarxista del “Frelimo” vengono a portare la loro legge. Circa 230 persone, metà bambini, scappano terrorizzate e si asserragliano in chiesa, subito circondata. Comincia l’assedio. Dentro non c’è niente per tutta quella folla. Qualche biscotto della Caritas avanzato da una festa di Battesimo e un po’ d’acqua del fonte battesimale, ricavato da un tronco pieno di fessure.

Verso le 17, il parroco, padre Giuseppe Frizzi (nella foto a fianco), chiama i catechisti e propone di elevare una preghiera di intercessione a suor Irene Stefani, missionaria del suo Istituto, la Consolata. La richiesta è di quelle “impossibili” data la circostanza: che tutti si salvino. La preghiera viene ripetuta da tutti per due giorni, fino a quando 150 persone vengono fatte uscire, caricate come bestie da soma e costrette a marciare per decine di chilometri nella foresta. Gli altri 80 restano in chiesa un altro giorno, poi i miliziani se ne vanno.

Sulle prime quasi nessuno fa caso al primo prodigio tra quelli che porteranno suor Irene agli altari: l’acqua del fonte battesimale ha continuato a dissetare tutti senza esaurirsi. E poi l’altro prodigio, dopo una settimana tutti i 150 ritornano al villaggio. E raccontano storie incredibili: esecuzioni sommarie scampate per un soffio, campi minati attraversati senza saltare in aria.

 

Primo Miracolo: L’acqua del fonte battesimale non viene meno.

  1. Frizzi in un primo momento non vi aveva dato eccessiva importanza a quello avvenuto all’interno della chiesa perché preoccupato soprattutto della sorte dei deportati.

Le 230 persone rifugiatesi in chiesa dovettero provvedere a tutte le necessità per la loro sussistenza (compresa la nascita di una bambina, chiamata Irene), nutrendosi di quello che era rimasto dalla festa dei battesimi, per lo più biscotti, e bevendo all’acqua del fonte battesimale dopo che il Padre e i catechisti hanno dato loro il permesso,(del resto non avrebbero bevuto dal fonte battesimale per il loro senso di rispetto, quasi timore, di accedere a una riserva d’acqua ritenuta sacra). Durante quei giorni tutti bevvero e si fornirono da quell’unica riserva d’acqua, senza che venisse meno, «nonostante il tronco del fonte perdesse acqua dalle sue fessure».

Indicato da P. Frizzi come «un tronco enorme incavato per circa 20-25 cm., largo altrettanto, con capienza di circa 15-20 litri ».

Da notare che due giorni prima, l’8 gennaio, furono amministrati almeno una trentina di battesimi, con evidente perdita di acqua.

Le testimonianze concordano nel dire che non vi è stata nessuna possibilità di fornirsi altrimenti di acqua. Il padre missionario è esplicito: «È più che certo che nessuno è uscito in cerca di acqua: i pozzi si trovavano lontani, al di là delle postazioni della RENAMO numerosa (due compagnie di attacco e due altre di riserva) e drogata. Nessuno, ancor meno le donne volevano rischiare di essere prese per fare le cuoche (e altro) alla RENAMO». Neppure per il parto di Irene, avvenuto sotto una pianta nel retro della Chiesa, le donne assistenti al parto osarono andare a cercare acqua. Lo confermò una di esse, moglie del catechista Bernardo. Ricorsero a mezzi di fortuna, soprattutto foglie. Si è pure constatato che nessuna conduttura d’acqua arriva all’interno della chiesa.

  1. Frizzi scrive che tutti bevvero al fonte, ma soprattutto i bambini, (che costituivano certamente oltre la metà della gente rifugiata in chiesa) la usavano anche per rinfrescarsi la testa. I testimoni presenti in chiesa asseriscono che tutti attinsero l’acqua dal fonte battesimale, e per attingere l’acqua dovevano arrangiarsi con le mani, ecco perché era molto bagnato attorno al fonte. Secondo il catechista Muapareia, in quelle condizioni l’acqua del fonte sarebbe bastata appena per una decina di ragazzi!

 

Secondo Miracolo: Tutti salvi!

Il 12 gennaio, la forza di occupazione consente che  ottanta persone rimangano nella chiesa. Già questo è considerato “un caso unico e raro”, contrario ai comportamenti abituali di quei militari, mai verificatosi in circostanze simili. Gli altri dovettero seguirli verso i loro campi di addestramento e percorrere lunghi cammini fino a 4 giorni di marcia, in mezzo a tanti pericoli, le mine antiuomo, la fame, la brutalità dei militari, il loro facile ricorso all’uccisione delle persone.

Dopo otto giorni cominciano a ritornare a piccoli gruppi, tutti miracolosamente salvi.

Il fatto che tutti siano ritornati incolumi, nonostante le decisioni esplicite di condanna a morte di alcuni, sventate in modo provvidenziale, e i falliti tentativi diretti di uccisione con spari di arma da fuoco, non si spiega umanamente.

 

  1. Frizzi, buon conoscitore della situazione avendola vissuta, rimase colpito e convinto del miracoloso intervento della Serva di Dio Irene Stefani soprattutto per la incolumità di tutti.

Il padre missionario, nella conclusione della sua relazione esprime la “certezza “ sua e della gente:
«Suor Irene, invocata, ci ha aiutato con interventi straordinari, incomprensibili alla luce della pura ragione. Ci sembra che la nostra supplica sia stata accolta al completo, al di là delle nostre stesse speranze».
Egli indica pure i principali motivi sui quali si fonda questa certezza:

  • la possibilità data alle persone rifugiate in chiesa di dissetarsi al fonte battesimale;
  • la conservazione di tutte le case dei catechisti, della missione, mentre di solito tutto veniva incendiato;
  • l’incolumità di tutti; (tre condanne a morte sventate miracolosamente)
  • il non  essere caduti su mine antiuomo nonostante la fuga in territori minati, (come è accaduto a Eugenio Jamo con la sposa e cinque figli. Affamati, trovano finalmente una piantagione di banane e poi canne da zucchero, su cui si buttano per sfamarsi, senza sapere che ambedue i luoghi erano minati, e non successe nulla!);
  • interventi prodigiosi nel trovare cibo e aiuto durante la fuga dei deportati.

 

«E’ affermazione corale, che nella fuga tutti siano stati protetti in modo speciale, sia perché non più ripresi e sia anche perché sfamati e guidati da sogni a trovare il sentiero giusto, ». In questo contesto rientra il fatto occorso al catechista Sebastião Aranha, deportato con la sua sposa e il bambino. Dopo due o tre giorni dalla partenza… fa il seguente sogno: vede una signora europea, non alta, con vestito bianco senza cintura, come le suore della Consolata, che tiene in mano due libri o due fogli bianchi, uno per mano; gli dice di leggere.

Apw iya ari oholo w’atthu wa mahiku othene (Il Signore è guida degli uomini tutti i giorni).        Apw iya ari mukuhuli aka wa mahiku othene (Il Signore è il mio pastore sempre).
Ordina di recitare tre volte in chiesa questa preghiera con il Padre Nostro e promette al catechista che ritornerà prima suo figlio poi la sua sposa. Infatti  recita tale preghiera da quel giorno in poi e, dopo due o tre settimane, arrivano quaranta fuggitivi tra i quali il figlio e poi la sposa del catechista.

È il “miracolo” collettivo ottenuto da suor Irene, che 60 anni prima aveva lasciato in Kenya il ricordo di un coraggio e una carità smisurata. Suor Jacinta Theuri, missionaria della Consolata oggi a Roma ma originaria del Kenya, proprio della diocesi di Nyeri dove suor Irene visse a lungo dice:

“Irene è stata una madre, una madre in tutti i sensi: madre spirituale e madre che nutriva anche il corpo, i bisogni del corpo. Per questo la gente l’ha chiamata ‘la madre di misericordia’, ‘la madre tutta tenera’. E ancora, di generazione in generazione, si tramanda la storia di questa grande donna e anche di altri missionari della Consolata che lavoravano in quella zona.”.

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